#lamenti notturni
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pier-carlo-universe · 2 days ago
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Anziano soccorso in casa dai Carabinieri nel cuore della notte: sta bene.
Novi Ligure – Una telefonata nel cuore della notte. Una donna segnala all’operatore della Centrale Operativa di sentire lamenti e sommesse richieste di aiuto ma di non capire da dove provengano
Novi Ligure – Una telefonata nel cuore della notte. Una donna segnala all’operatore della Centrale Operativa di sentire lamenti e sommesse richieste di aiuto ma di non capire da dove provengano. La Gazzella dei Carabinieri arriva rapidamente sul posto, raggiunge la richiedente, cerca di comprendere da dove possano provenire quelle che, a tutti gli effetti sono sofferenti richieste di aiuto. I…
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macabr00blog · 10 months ago
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STORIA DI UN PAPAVERO & DI UN TULIPANO
Negli occhi le ultime immagini di recinzioni, dita che strappano i fiori. E’ luglio ma coesistono due stagioni. L’una calda ma da brividi sul collo, l’altra estinta e allunata dove il sole ci scortica la faccia. Ti presenti il mattino, la tua decadenza corporale resa finta nelle smanie e nelle parole, finzione da paura che pulsa, cartografia della tua nudità sulla sdraio di iuta, e te ne vai quando cala il sole, la polvere della terra della strada in riparazione che si alza al contatto con la gomma scesa della ruota della tua bicicletta, gazzella a pedali che mangia tracce di catrame, selvaggia e intossicata. I miei scheletri di epidermide di arrossamenti sulle tue dita soffici, mi accarezzi una guancia ed è agosto, era mattino e la notte mi aveva avuto nelle sue mani, mi aveva avvolto in un foglio di spine. Ti ho detto che l'estate aveva l’aria di terra straniera, ma dimenticavo i carnevali di maturazione violenta spinto contro pareti di mattonelle fredde, il battito dell’infedeltà, ispezionavo lo spazio circostante. Sentivo ronzare la mia fatica nell’avvicinarmi ad una storia che mi facesse meno male. La sequenza era confusa e nel frattempo i fatti avevano surclassato le intenzioni e la riflessione non sussisteva dopo i cinquanta chilometri di distanza, non sapevo che tu dovessi andartene fino a quando non te ne sei andato, non immaginavo potesse esistere un mondo dove tornavamo orfani. L’indebolimento mi porta alle porte dell’inverno. Un anno di lamenti soffusi, non ricordo nient’altro, impressioni semplici e principi notturni, procuravo eccezioni per intrattenermi, era soltanto una parata silenziosa, non serviva a nulla tranne a convincermi del mio stato di adeguamento. Quando, realmente, non mi davo pace. La mia era una battaglia di retroguardia continua. Trovare radicali nello stabile, no insicurezze né dubbi, non c’è spazio per una nuova terra di esplorazioni, di una nuova carezza se poi prevedo l’allarme. Io lo sento, suona ovunque, è il canto di una sirena che mi conduce all’acqua.
E nell’acqua ti ritrovo.
Sono passati due anni e io sono padrone di niente. Freno la mia incombenza, il mio corpo rattrappito dal controllo, il tuo scavato dall’apatia, ci guardiamo in convinzioni uniformi, è una mattina ed è di nuovo estate. Parcheggio della villa a Malcesine, io diventato piromane dopo l’incendio che ha usurpato il mio corpo nel ghiaccio, tu naufrago per la troppa pioggia che ha creato una distruzione da alluvione. Siamo uno davanti all’altro, incapaci di gesti, forse deumanizzati, sicuramente spregevoli come eravamo tempo fa. Nella notte prime fughe, galleggiare come mosche in un contenitore di vetro, la costruzione del nostro rapporto consunta che si fa ciondolare da un filo, è un acrobata o è un suicida? Ci baciamo sulle scale, sulla porta, in auto, nei parcheggi, nelle spiagge, nelle retrovie, bocca su bocca come impronta su impronta, tra qualche mese svanirà, no fossili, no segni indelebili. Evaporiamo su diversi strati di temperatura, i pomeriggi tu sparisci d’improvviso, ti saldi nel ricordo e nessuno ti viene a cercare. Farti sapere, la notte, che io ti ho pensato tutto il tempo, tu mi dici che i pensieri d’evasione sono marciume, finiremo come corpi su una montagna di discarica, finiremo con la memoria delle zanzare che risalgono la baia, non c’è niente al di fuori di questa sorte e di questo silenzio di luna. Non posso aspettarti, non devo aspettarti, devo solo tastare la polvere, la terra, devo imparare a stare solo, la mascella stretta con i denti scheggiati, devo educarmi all’abbandono. Eppure la placca invisibile dell'aria mi sembra così buona sulle mie palpebre, la memoria della terra umida dove sono uscito, i piedi ancora sporchi di fango come quando nascere era soltanto nascere, come quando ero solo un bambino e desideravo solo esserlo. All’interno del mio corpo e del tuo, noi figure scure su uno sfondo blu notturno, disgregati i pezzi di magma delle memorie. Dalla villa divampa un incendio, è il falò estivo. Stiamo bruciando i resti delle bestie che abbiamo nella pancia. Il mio e il tuo animale. Perché non c’è più tempo per questo.
E nel fuoco ti ritrovo.
Non riuscivo a distinguere l’altezza dei miei piedi, ero troppo leale per essere un adolescente, ero troppo adolescente per essere fedele, tu nel buio hai selciato la disgrazia con bastoni, tu sei uno scrittore, rivolta nell’essenza di ombra. Mi hai detto che mettere insieme delle parole trova la luce. Ti ho chiesto allora del senso di un Dio, tu hai detto che la religione è una casa per tanti, ma è una casa di cartone. Ed ora sul mondo piove, serve solo uno scevro poetico, uno straccio di luce, e la luce arriva e arriva e arriva. La poesia non ha acqua nella quale morire.
I nostri valori sono cresciuti su questo, dunque, perché non ci serve nient’altro. Dimentichi le nostre sagome deformi, dimentichi il bagliore che riflette sulla baia, dimentichi i rumori di riverbero, il caos delle nostre veglie abbuffate di baci, tutte quelle cose che sembravano stelle, sembravano galassie, ora sono solo luci. Si accendono e si spegnono. E tu dimentichi. Buio. E ricordi. Luce. E appunti. Luce. E scarabocchi. Luce. E accartocci. Buio. E te ne vai e te ne vai e te ne vai, e io me ne vado e me ne vado e me ne vado, e ti dico cosa abbiamo fatto a quelle povere bestie innocue che ci vivevano dentro? Ma tu non hai risposta per me, sembro uno sciocco, grido come un padre con i gomiti ruvidi, l’espressione che aveva il tuo e che hai cercato di rimuovere per la paura di tornare ad affogarci dentro, cosa hai fatto alla mia bestia?
Ci siamo lasciati nella luce, volevo che fosse chiaro. Era settembre e uscivo da casa tua con una vecchia valigia rossa.
Lazio e Emilia e Lombardia e…?
E nell’aria ti ritrovo.
Anni di terre mute, il mio dissapore nelle mani che impacciate si muovono, la mia lingua cerca di impossessarsene invano, qui c’è solo un campo coltivato e un colpo di stato e un altro campo coltivato e poi nulla per chilometri. Ricordo delle tue labbra asciutte del mezzogiorno, tutto questo deserto che si riempiva di suoni, crescevano dal nulla. L’abbandono insegna, occorre che io resti muto, senza fede, senza tonnellate di gloria inconcepibile, senza Dio nei crepuscoli. Offro l’idea della carne viva che brulica e che emerge dal fumo, intrattenimento becero, porto all’esterno i dettami dei miei sogni, agilità compatta di vecchi membri. Incido con potenza e graffio le ennesime parole senza suono. Mi sono educato a stare bene e stavo bene, ma era affondare nel perbenismo, io subisco la mia stessa felicità, il tempo mi rimane secco sulle dita.
Tu crei il virus per praticare il contagio e io sono sfinito dalla pestilenza, sono sfinito dall’incanto, dall’eco della malattia, e ti chiedo di farmi entrare. Fallo nella notte, dico, nei freddi tremori. Ma ho dimenticato che c’è stato del tempo in mezzo alle nostre vite, ora sei fiero, ora sei salvo, ti sporgi con le mani, hai smesso di morire ad ogni pezzo di nuova stagione, ti sporgi con la bocca e mi baci. In mezzo a quel mondo che ripudiavi, nessun senso di vergogna, sei una morsa affettuosa, la tua fatalità resa immagine. Perché mi hai fatto entrare solo ora?
Io sono un papavero. Ho trascorso l’infanzia da solo. Ero sempre da solo, soprattuto nei mesi estivi. Guardavo le schiene curve che sorreggevano le balle di fieno, le schiene che portavano tutto dappertutto, e in quel tutto io ero compreso. Mio padre con le sue mani tozze e indurite, è svanito nel rincorrersi delle voci attorno, tutte quelle voci su un mucchio di carne. L’acqua sporca e salata della sua bocca irrigava, i capelli schiacciati dal peso del grasso denso. Io ero in disparte, ascoltavo i discorsi, i monologhi, in quelle parole albergava sporadicamente quanto avevo bisogno di ascoltare: la distanza dall’obbedienza, dalle regole imposte, e intanto perdevo un pezzo di mio padre. Il mio lessico si faceva disturbante, antagonismo che si voleva deostruire, io non capivo di esserne sempre stato schiavo. E perdevo un pezzo di mio padre. Io sono un papavero, i miei petali sono troppo fragili per essere ancora intatti dopo che sono stati sfiorati. Non so dire cos’è reale per un padre, non so chiamarlo mentre se ne va.
E i tulipani sono i miei fiori preferiti, perché non sono i preferiti di nessuno, e assomigliano alle tue gambe accanto a me e all’incavo del tuo collo di petali morbidi. E tu resisti per pochissimo, ma rimani bello da morto, i tuoi colori ancora lucenti dopo mesi di solitudine, appari così dolce tra i molari. Perché ora hai smesso di averne paura.
Ero sempre da solo, soprattuto nei mesi estivi. Negli occhi le ultime immagini di recinzioni, dita che strappano i fiori, saranno più belli domani, dentro un vaso a morire. Sarai più bello domani, quando ti presenterai al mattino.
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ «Che cosa ci facciamo dentro questi corpi», disse il signore che si stava preparando a stendersi nel letto vicino al mio. La sua voce non aveva un tono interrogativo, forse non era una domanda, era solo una constatazione, a suo modo, comunque sarebbe stata una domanda alla quale non avrei potuto rispondere. La luce che veniva dalle banchine della stazione era gialla e disegnava sulle pareti scrostate la sua ombra magra che si muoveva nella stanza con leggerezza, con prudenza e discrezione, mi parve, come si muovono gli indiani. Da lontano veniva una voce lenta e monotona, forse una preghiera oppure un lamento solitario e senza speranza, come quei lamenti che esprimono solo se stessi, senza chiedere niente. Per me era impossibile decifrarlo. L'India era anche questo: un universo di suoni piatti, indifferenziati, indistinguibili. «Forse ci viaggiamo dentro», dissi io. Doveva essere passato un po' di tempo dalla sua prima frase, mi ero perduto in considerazioni lontane: qualche minuto di sonno, forse. Ero molto stanco. Lui disse: «come ha detto?». «Mi riferivo ai corpi», dissi io, «forse sono come valigie, ci trasportiamo noi stessi». Sopra la porta c'era una veilleuse azzurra, come nei vagoni dei treni notturni. Misturandosi con la luce gialla che veniva dalla finestra creava una luce verdolina, quasi un acquario. Lo guardai e nella luce verdastra, quasi luttuosa, vidi il profilo di un volto aguzzo, con un naso leggermente aquilino, le mani sul petto. «Lei conosce Mantegna?», gli chiesi. Anche la mia era una domanda assurda, ma non meno della sua, certo. «No», disse, «è un indiano?». «È un italiano», dissi io. «Conosco solo inglesi», disse, «gli unici europei che conosco sono inglesi». “
Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio Editore (collana La memoria n° 93), 2002³³ [1ª ed.ne 1984]; pp. 38-39.
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latonegativo · 3 years ago
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Ennesimo attacco di panico in piena notte, respiro in crisi, cuore che scoppia, io che sudo e mi ripeto a me stesso che andrà tutto bene..
Mi volto e sono solo nel letto, quel letto che prima lo riempivamo assieme...
I tuoi capelli perennemente in faccia, le tue gambe sulle mie, i tuoi lamenti notturni che mi svegliavano..
I tuoi occhi al mattino appena sveglia, socchiusi ma si poteva intravedere già il mare da quanto sono azzurri, il tuo rotolarsi per tutto il letto fino ad arrivare a me abbracciandomi, tu che profumavi di nanna..
Io che ti preparavo la colazione e ti lasciavo un bigliettino ad ogni mattino.. L'ultimo bigliettino che scrissi per te citava queste parole "se un giorno te ne andrai, sappi che vivrai dentro me e dentro questa casa per sempre, sei nel mio tutto, ti amo piccola mia"
Ed ora mi ritrovo qui a scrivere dopo una crisi di pianto e solitudine.. Cazzo!! Mi manchi.
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akyshar-universe-blog · 8 years ago
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PROLOGO
Pioveva, ma in quella maledetta cittadina dimenticata da Dio non era un evento raro. Se eri fortunato, era una pioggia leggera, di quelle piacevoli che ti lavavano via di dosso il sudore e la stanchezza; nella peggiore delle ipotesi era un violento temporale, con gocce gelide e pungenti come spilli acuminati che ti si conficcavano nella carne. Quel giorno, però, pioveva e basta, né troppo forte né troppo piano, una cosa a metà, per questo ancora più fastidiosa. Reinhart si strinse nel mantello zuppo e alzò lo sguardo verso il cielo, osservando la spessa coltre di nubi con aria scettica. Si calò meglio il cappuccio sulla testa e riprese a camminare. Nell'aria riecheggiò il fragore di un tuono. Le poche persone che erano ancora in strada affrettarono il passo, rifugiandosi sotto le tettoie delle botteghe e delle case o direttamente dentro qualche taverna. Non appena si avvide d'essere solo, Reinhart si accostò al muro di un palazzo per trovare riparo. Il freddo gli era ormai entrato nelle ossa, tanto che avrebbe desiderato andare a riscaldarsi in un luogo chiuso, possibilmente davanti a un bel fuoco, ma non poteva. Sospirò, sistemò la spada che portava sulle spalle e slacciò le cinghie che tenevano legato il suo fucile Justifer, per poi lasciarsi scivolare seduto a ridosso del muro. Non sapeva quanto sarebbe dovuto rimanere lì, quindi era meglio mettersi comodi. Non che stare seduti su quell'acciottolato fangoso corrispondesse esattamente alla sua idea di comodità, ma non aveva intenzione di bagnarsi ulteriormente. Sperava di riuscire a compiere la sua missione prima del calare della sera, così da rimettersi in marcia il giorno stesso, ma a giudicare dalle condizioni atmosferiche probabilmente sarebbe stato costretto a soggiornare lì più a lungo del previsto. Sospirò nuovamente e cercò di ricordare quante monete si fosse portato dietro. Forse ne aveva a sufficienza per almeno una notte. Dopo la missione ne avrebbe ricevute altre cinquecento. Quando la Fratellanza gli aveva affidato quell'incarico, non aveva potuto fare a meno di storcere il naso. In teoria era una missione facile, prevedeva la caccia di alcuni Ghoul che infestavano il cimitero fuori città. Detestava quel genere di missioni, i Ghoul gli mettevano i brividi. Erano una razza di mostri notturni, esseri umani che si trasformano in orripilanti umanoidi in seguito all'abitudine di cibarsi di carne umana. Erano facili da uccidere, ma la puzza che emanavano lo infastidivano. Reinhart aveva tentato in tutti i modi di fare cambio con qualche altro Venator, ma stranamente sembravano tutti impegnati quella settimana. Non se n'era stupito più di tanto, ma lo infastidiva enormemente che fosse stato scelto proprio lui per andare a Hambleden. D'altronde i piani alti della Fratellanza erano famosi per il loro umorismo, alquanto discutibile per molti dei dipendenti. Schioccò la lingua e si fabbricò una sigaretta. L'odore del tabacco gli penetrò nelle narici e gli invase il petto, tranquillizzandolo. Come ogni volta, rimase immobile ad osservare il fumo che si trasformava in morbide spirali, per poi disperdersi senza lasciare traccia. Intorno a lui regnava un silenzio tombale. Sul ciglio della strada, più avanti, c'era qualche puttana che si guardava intorno annoiata, consapevole che la sua attesa non sarebbe stata ripagata. Guardò distrattamente il riflesso dei palazzi fatiscenti nelle pozzanghere che si erano formate in mezzo alla strada e sputò fuori un'altra nuvola di fumo. Circa un secolo prima tutto il mondo era stato investito da una rivoluzione industriale che lo aveva completamente cambiato. I boschi e le sterminate foreste erano state abbattute per far posto a grandi città, dove si ammassavano case e fabbriche d'ogni tipo, mentre i vecchi sentieri erano stati soppiantati da chilometri e chilometri di rotaie, su cui viaggiavano i treni che collegavano le città più lontane. L'industrializzazione aveva invaso il presente, catapultando il mondo in un'era dove i cieli erano sorvolati da Aeronavi e grigi Dirigibili, costruiti grazie alla fusione delle nuove tecnologie con la magia. La chiamavano Tecnomanzia, e quasi tutte le contee nelle Terre del Nord avevano accettato quel nuovo, prodigioso cambiamento, tutte salvo Longlesh, e Corkia. Appellandosi ai movimenti anti-industriali, i sindaci avevano limitato, se non addirittura proibito, qualunque forma di tecnologia sul loro territorio. Perciò le città che avevano rifiutato l'avanzare del progresso erano accomunate dal degrado e dalla povertà, quasi totalmente escluse dai commerci e lontane dalla civiltà. La popolazione viveva di stenti, nella costante paura dei mostri che abitavano le foreste nei dintorni, e la tecnologia era un bene costoso ed elitario, che solo pochi potevano permettersi. Non era strano, quindi, che la maggior parte delle richieste d'aiuto che arrivavano alla Fratellanza giungessero proprio da una di quelle contee arretrate. Per non parlare della "famosa" gratitudine dei loro abitanti. Reinhart si ricordò la fine ingloriosa che aveva fatto uno degli ultimi Venator che era stato spedito lì in missione, morto ammazzato dagli stessi cittadini che gli avevano chiesto aiuto. Fece vagare lo sguardo qua e là per assicurarsi che nessuno lo stesse osservando e con molta attenzione tirò fuori dalla tasca interna del mantello una mappa sgualcita. Studiò la planimetria della città per l'ultima volta e, dopo essersi calato di nuovo il cappuccio sul capo, si alzò. Riprese a camminare per la strada principale, tenendo sempre i sensi vigili per evitare di venire derubato. Superò rapidamente una bottega con il vetro bagnato e sporco di fango e un bordello dall'aria triste che, stando al suo fiuto, ospitava all'interno quattro, forse cinque uomini avvinghiati ai corpi delle loro “intrattenitrici”. Passò di fronte alla finestra, resa opaca dalla condensa e dal divario di temperatura tra fuori e dentro. Lanciò un'occhiata distratta e gli parve di riconoscere il viso di una ragazza che aveva incrociato al suo arrivo. Lei, come se avesse percepito la sua presenza, alzò lo sguardo e per qualche istante i loro occhi rimasero incatenati. Il Venator ebbe l'impressione di scorgervi una tacita preghiera di aiuto, poi una mano da uomo artigliò una spalla ossuta della giovane prostituta e la trascinò nella penombra. Reinhart rizzò le orecchie e rimase in ascolto, forse per assicurarsi che non le venisse fatto del male, ma in ogni caso non avrebbe mai ammesso di essersi preoccupato per una puttana. Udì una sequela di gemiti e lamenti, così distolse bruscamente l'attenzione. Ciononostante, non poté fare a meno di avvertire qualcosa muoversi nel suo petto, un fastidio acuto e immotivato. Scrollò la testa con veemenza e si allontanò. Dopo un po' si fermò appoggiato a un palo e attese che quella strana sensazione passasse, forse era uno spettro di qualche emozione passata. L'Unione e le Rune del Comando che aveva tatuate sul corpo cancellavano ogni tipo d'emozione dalla sua anima. Strinse i pugni più volte, prendendo dei respiri profondi e cercando di regolare il battito cardiaco, accelerato per la rabbia. Irritato, sputò per terra e chiuse gli occhi. Lui era uno Venator, un cacciatore di mostri, non certo l'eroe delle puttane o di poveri contadini. Non aveva alcun obbligo verso quei bifolchi, anzi, preferiva evitare qualunque contatto. Se quella donna avesse potuto pagarlo, forse l'avrebbe aiutata, ma nemmeno vendendo i suoi stessi organi avrebbe potuto permettersi i servigi di uno come lui. Arrivò alla piazza principale e si fermò davanti alla sua destinazione; una chiesa, corrosa per buona parte dall'usura del tempo e delle piogge, si stagliava contro il cielo in una silenziosa sfida al Creatore. Dei pilastri che scandivano la facciata ne rimanevano in piedi soltanto due, simili a dita scheletriche di cadaveri putrefatti. L'acqua scorreva tra i contrafforti coronati da guglie marmoree e sui resti di tre enormi finestre con nervature sinuose ed eleganti. Al centro, le gocce di pioggia correvano sulle schegge colorate di un antico rosone, mentre il simbolo solitario della Fratellanza si ergeva sulla cupola centrale. Reinhart rimase incantato a contemplarla per alcuni istanti, poi si avvicinò al portone di legno marcio e bussò. Il suono cavo prodotto dalle sue nocche riecheggiò in maniera inquietante e per cinque minuti abbondanti non udì nulla a parte lo scrosciare della pioggia. Poi il silenzio fu spezzato da passi concitati e sulla soglia apparve una donna avvolta in una pesante tunica nera e la testa coperta da un velo bianco. "Desidera? " "Sono qui per quella cosa. "rispose vago, ma la suora afferrò subito il sottinteso. Lanciò un'occhiata in tralice alla spilla che Reinhart portava sugli abiti al di sotto del mantello, un oggetto con sopra inciso un grifone, simbolo della Fratellanza, ma non si scompose. "Mi è concesso vedere il suo volto? " "Non le bastano i miei occhi? " Evidentemente le era stato ordinato di non far entrare nessuno a parte colui che stavano aspettando. Reinhart sospirò e tirò giù il cappuccio. Si passò le mani tra i capelli neri. "C'è altro? "ghignò. La donna scosse in fretta la testa e arretrò, dandogli il permesso di entrare. "Pr... prego... "balbettò. Senza premurarsi di rimettersi il cappuccio, Reinhart fece il suo ingresso nella chiesa. A Hambleden lo scorrere dei secondi, dei minuti e delle ore non aveva la stessa importanza che in qualunque altro luogo. Gli abitanti, le case, persino l'aria stantia di quella cittadina sembravano non risentire dell'effetto del tempo. Si aveva come l'impressione che tutto fosse immobile, soggetto ad un'eterna stasi che sapeva di morte. Quando Reinhart uscì dalla chiesa non seppe quantificare quanto fosse rimasto dentro. La pioggia continuava a cadere imperterrita come quando era entrato e per le strade non c'era anima viva. Il freddo gli penetrò di nuovo sotto il mantello e si maledì per non essersi portato dietro nemmeno un panno per asciugarsi. Il cimitero distava ad almeno tre miglia dal paese. Era meglio muoversi. Mentre attraversava il paese, sentì un flebile vagito provenire da un vicolo dietro il bordello. Rimase immobile per qualche istante sotto la pioggia che si era intensificata. Non era un suo problema, aveva un'altra missione. Sbuffò fragorosamente prima di addentrarsi nel buio e maleodorante vicoletto. Stesa a terra riversa in una pozza di sangue c'era una donna, che stringeva un fagotto di stracci che piangeva disperato. Un bambino. Probabilmente la puttana aveva partorito nel vicolo, ed ora stava morendo per un'emorragia. Lui non era ne un dottore, ne un guaritore. Era un'assassino di mostri. Si avvicinò con indifferenza. La donna sarebbe morta da li a qualche minuto. "Prendi... mio figlio ti prego..." Gli disse con voce cosi bassa che quasi non si sentiva. "Io non credo sia una buona idea..." Rispose serio. "Ti prego... è solo un bambino..." La sua voce era implorante. Reinhart si maledì mentalmente mentre prendeva in braccio quel piccolo fagotto frignante. Era un maschietto. "Come si chiama?" Gli chiese. Ma la donna non rispose, aveva già chiuso gli occhi. Era morta. Irritato più di prima, strinse con fermezza il fagotto che aveva tra le braccia, e uscì dal vicolo. Non poteva portare con se quel bambino, non in un cimitero pieno di Ghoul. Ripensò alla chiesa e decise di lasciarlo li fino a termine della sua missione. Il problema però era un'altro, ora doveva trovare un modo per spiegare alla Fratellanza perché fosse tornato con un bambino. Il fagotto si dimenò e una manina rosea sbucò da quell'involucro di panni luridi. Il Venator rivolse un'occhiata distratta al piccolo: aveva un paio di occhi di uno strano colore scuro, con quasi un accenno di rosso che gli conferivano un'aria strana. Qualcosa gli suggerì che quell'esserino non era del tutto umano. Si trattava sicuramente di un mezzo sangue, la madre si era fatta ingravidare molto probabilmente da un Vampiro. "Ma guarda un pò sei un Akyshar..." Non sapeva se la Fratellanza avrebbe acetato un neonato mezzo sangue, di sicuro ne avrebbero fatto un Venator e in quel momento, per la prima volta, si pentì di non averlo lasciato tra le fredde braccia di sua madre. "Ti chiamerò Erik... ti piace piccolo succhia sangue?" Il bambino socchiuse appena le palpebre ed emise un vagito. Reinhart inclinò la testa e, senza rendersene conto, l'ombra di un sorriso si dipinse sulle sue labbra.
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